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La torre di San Menaio

martedì, giugno 23rd, 2009

torre

Per la sua particolare conformazione fisica, che ne fa una penisola immersa nel mare, l’Italia, nel corso dei secoli, è stata un … boccone appetibile per tutti i popoli dell’antichità più o meno recente.

La Torre di San Menaio fa parte di un sistema fortificato di difesa contro le invasioni dal mare, esteso a gran parte delle coste pugliesi: le temute incursioni dei pirati turchi, infatti, funestarono a più riprese la storia dei centri costieri dell’Adriatico, rendendo indispensabili delle contromisure.

Il sistema di fortificazioni, costituite da torri poste ad una distanza che le rendesse visibili l’una dall’altra, fu progettato durante il viceregno spagnolo di don PEDRO di Toledo (1513 – 1559).

Di giorno le segnalazioni di avvistamento di navi pirate avvenivano o con gli specchi o con il fumo, mentre, di notte, i difensori si servivano delle torce.

Tutto il litorale abruzzese, molisano e pugliese (quest’ultimo sia lungo l’Adriatico che lungo lo Jonio) era costellato di torri di difesa che avevano la stessa funzione e la stessa forma esterna.

Ne furono costruite 376, di cui 25 in Capitanata.

Chi non conosce Torre Fortore, Torre Mileto, Torre di Monte Pucci, la torre di Vieste e quella di San Menaio?

Quest’ultima fu però edificata in un periodo anteriore, su iniziativa di privati, per soddisfare una sentita esigenza di difesa.

Nel corso del tempo, la torre, oggi inglobata nel centro abitato, ha gradualmente perduto il carattere di fortificazione, per assumere quasi l’aspetto di un edificio residenziale.

La sua tipologia è simile a quella delle torri salentine della zona di Gallipoli e di Nardò: consta di un basamento tronco-piramidale in cui si imposta un corpo parallelepipedo a due livelli, oggi finestrati. Il coronamento è costituito da una serie di “mensoloni” sporgenti che sorreggevano, probabilmente, le caditoie (buche fatte nelle volte delle torri per gettare sassi sui nemici invasori) estese a tutto il perimetro della torre; delle fasce marcapiano segnavano la separazione tra i vari livelli.

Articolo scritto dallo studioso di storia locale Ins. Domenico Tota.

Pubblicato sulla Gazzetta di San Severo il 12 ottobre 2002

Quella famosa notte del 10 febbraio 1941

mercoledì, giugno 3rd, 2009

Ho svolto indagini approfondite riguardanti il bombardamento aereo subito da San Severo la sera del 10 febbraio 1941 e ne faccio partecipi i lettori perché si sappia la verità su quel tragico evento. Il dr. Umberto Salvatore Di Capua, nostro concittadino, residente da anni a Francavilla al Mare, ci ha scritto affermando che l’aereo era di nazionalità francese e che in quella occasione Carluccio Russi, fornaio, detto “Bacchettone”, fu insignito di medaglia d’argento al valore militare o civile per aver collaborato al ripristino dell’ordine nella stazione ferroviaria quella famosa sera.

In merito alla prima affermazione, voglio precisare che l’aereo non poteva essere francese, dato che la Francia era sotto l’occupazione tedesca; non poteva essere americano perché gli USA non ancora erano scesi in guerra contro di noi; non poteva essere inglese perché la loro base più vicina era Malta ed un aereo ad un solo motore e non poteva avere autonomia di volo per venire da noi, produrre danni e poi tornare alla base. Le stesse relazioni delle autorità civiche e di P.S. parlano genericamente di “aereo nemico”. Per quel che riguarda poi la medaglia d’argento conferita a Carlo Russi, la figlia Rossella, che al tempo dell’incursione aveva 10 anni, ha affermato di ricordare che quella sera gli amici del quartiere si rivolgevano a suo padre e gli chiedevano: «Mbà Carlù, ce fa scegne abbasce alla cantine?». A queste richieste il fornaio accondiscendeva volentieri. Era un uomo molto altruista e generoso. Una volta salvò da sicuro annegamento un giovane maldestro vigile del fuoco ed in altra occasione non esitò a scendere in una cantina rischiando la propria vita per salvare due coniugi in fin di vita per le esalazioni del mosto in fermentazione. Probabilmente avrà ricevuto l’onorificenza per questi ed altri gesti di solidarietà fraterna e non per l’episodio della stazione. Infatti, il suo nome non risulta nella relazione della Pubblica Sicurezza redatta in data 11 febbraio 1941 che qui di seguito trascrivo: «Di seguito a precedente corrispondenza, comunico che nella nota incursione verificatasi il 10 corrente, sono andati distrutti complessivamente 30.000 litri di benzina e sono stati anche perforati da schegge o colpi di mitragliatrice, sei carri serbatoi carichi rispettivamente di 100 o 150 quintali di vino il cui contenuto è andato in gran parte perduto. In particolare sul sesto binario si trovava un treno merci in sosta di cui tre carri carichi di benzina situati al centro del treno furono colpiti in pieno da una bomba e presero fuoco. Il I° Capo Squadra della Milizia Ferroviaria Mundi Raffaele, Comandante il locale Comando stazione, al momento dell’incursione, si trovava in casa: uscito subito, fu uno dei primi ad accorrere alla stazione ferroviaria per l’opera di soccorso. Con ammirevole calma e prontezza di spirito, valendosi anche delle sue cognizioni tecniche, riunì quattro militi ferroviari dipendenti e, coadiuvati dal Tenente Riva Mario del 72° Battaglione Territoriale qui di stanza, da tre militari di truppa dello stesso reparto e da certo Moscatelli Augusto fu Ettore, abitante al Viale Stazione n. 106, sganciò e mise in salvo, spingendoli a braccia in direzione sud, altri 6 carri, carico ognuno di 10.000 litri di benzina che così, grazie alla prontezza dell’iniziativa, furono salvati. Mentre ancora durava l’operazione di salvataggio, a tali volenterosi si aggiunsero il Brigadiere di P.S. Monaco Michele e Lauriola Matteo, dipendenti da quest’Ufficio. Successivamente il Mundi, coadiuvato dagli altri, iniziò il salvataggio di altri 19 carri componenti il treno colpito che contenevano merci varie e furono spinti a braccia versi il lato Nord. Nel frattempo, giunsero alla stazione, cooperando ai vari servizi e dando tutti prova di calma prontezza e spirito di sacrificio, il Vice Federale Cav. Michele Di Lembo, il sottoscritto con altri agenti P.S. dipendenti, il Comandante di Compagnia della Stazione CC.RR. con tutti i militari disponibili, il Comandante di Compagnia R.G. di Finanza coi suoi militari, alcune guardie municipali col Comandante, alcune guardie municipali col Comandante, alcune guardie notturne col Comandante, il Potestà, benché sofferente, ed il Segretario Politico. A costoro si aggiunsero il Capo Stazione titolare Iannandrea Luigi, altri quattro ferrovieri della Garganica e tre cittadini, oltre ad un S. Tenente A.A. dello Scalo di San Nicola di Varano, di cui non si è potuto conoscere il nome. Di tutti costoro si sono maggiormente distinti per porre in salvo i carri minacciati dal fuoco, il Capitano della R.G. di Finanza Guido Testoni, che riportò anche una lieve contusione ad un ginocchio, il predetto Ufficiale A.A., il ferroviere Gosetti Rodolfo, certo Perrotti Mario e Brigantino Giovanni e infine, oltre al predetto 1° Capo Squadra Mundi. Il Brigadiere P.S. Monaco Michele e Lauriola Matteo. È anche da segnalare la prontezza con cui giunsero i Vigili del Fuoco di Foggia. In conclusione, mentre è degna di particolare rilievo l’opera del Mundi che primo riuscì ad evitare l’incendio probabile ed imminente dei sei carri di benzina (per un complesso di litri 60.000) che invece furono posti in salvo, tutti gli altri enti, Autorità, Comandi e privati che furono interessati alla cosa si comportarono egregiamente. Tanto comunico per quelle ulteriori determinazioni che saranno ritenute opportune. Avverto da ultimo che il Mundi è decorato d’una medaglia di bronzo al valor militare conseguita al Montello nel 1918, d’un attestato di pubblica benemerenza ottenuta a San Severo nel 1939, ed è padre di undici figli viventi ed a carico. San Severo, 11 febbraio 1941-XIX». (Sulla velina da me consultata non risulta né la firma né il grado dell’estensore della relazione, che saranno stati apposti senz’altro sull’originale).

a cura di Domenico Tota
articolo già pubblicato su La Gazzetta di San Severo, 16/02/2002

Le rondini non temono più…a’ palomma

mercoledì, giugno 3rd, 2009

Dal 1935 1l 1955 ho abitato a Largo Sanità, volgarmente chiamato “U MURIENE” (non ancora conosco l’etimologia di questo termine). Descriverò a puntate la vita che vi si svolgeva in tutti i periodi del anno, i giochi dei ragazzi, le condizioni igieniche, i lavori che vi si praticavano, i diversi personaggi che hanno lasciato un’impronta indelebile nel quartiere. Fino al 1944, anno in cui gli americani buttarono dagli aerei il “DDT” che riuscì a distruggere mosche e zanzare in tutta la città, questi pericolosi insetti spadroneggiavano per le strade, nella casa, ovunque.

In ogni casa, l’immondizia si raccoglieva in recipienti di lamiera che erano serviti in precedenza, nei negozi di generi alimentari, per mettere sardine o acciughe (la plastica era ancora sconosciuta). Bastava praticare due fori sul bordo ed infilarci del fil di ferro, e il raccoglitore era pronto. Era obbligatorio versare il contenuto (avanzi di cibo, brodaglie, roba solida) all’incrocio delle strade (au pentone). Una volta al giorno passava il netturbino con un carretto, chiuso ai quattro lati e trainato da un cavallo. L’addetto, munito di una pala abbastanza larga, raccoglieva tutto e buttava nel carretto. Mosche, zanzare ed insetti vari spadroneggiavano dovunque, si moltiplicavano, penetravano in ogni casa e si posavano sul cibo con grave pericolo di malattie a scelta. Cacciate, ma non uccise, dagli asciugamani, ritornavano alla carica. C’era una quantità enorme di cibo per gli uccelli insettivori, prime le rondini. Oggi si vedono pochissime rondini perché manca per loro il cibo adatto. Le migliori condizioni ambientali ed igieniche hanno sottratto il cibo agli insetti, questi non si sono moltiplicati ed è venuto a mancare il cibo per le rondini. Il proverbio “San Benedetto (21 marzo), la rondine sotto il tetto”, non risponde alla realtà. Erano tante le rondini, che un giorno feci la prova, stando sul terrazzo, ad allungare una canna; una cadde ai miei piedi. Dopo averla osservato da vicino, la rimisi in libertà.

“U MURIENE”, nei mesi estivi, si affollava di ragazzi che praticavano uno “sport” che non ho mai condiviso. Quelli più grandi, dai 14 ai 16 anni, avevano aiutanti più piccoli. I cacciatori si fabbricavano “A PALOMMA” in maniera artigianale. palommaImpugnavano il manico (n. 1), un pezzo di mazza di scopa, con la mano sinistra. Con la destra tiravano con forza una cordicella (n. 2) di circa un metro che avvolgeva un rocchetto (u recelicchie). Il rocchetto (n. 3) girava violentemente, coinvolgendo nel giro vorticoso “a palomma” (n. 4), un pazzo di lamiera di cm 3 x 7, con le punte taglienti. Alla maniera degli aerei di allora, che avanzavano facendo avvitare l’elica nell’aria, e tenendo conto dei principi dell’aerodinamica, “a palomma”, roteando, saliva fino ad un’altezza di una trentina di metri. Le rondini, abbagliate dal luccichio del metallo, cercavano di afferrare col la bocca quello che credevano cibo ma si ferivano e cadevano mentre l’aiutante andava a prendere la preda. Il gioco crudele durava tutto il pomeriggio. Solo qualche giorno fa, uno di quei “cacciatori” mi ha rivelato cosa ne facessero delle rondoni uccise: <<Maiè, à fème iev assà…a chèse ce facemm nu bell suffrettille!>> (Maestro, la fame era parecchia e a casa ci facevamo un bel soffritto!). Altri ragazzi si arrampicavano sui pali della luce e lanciavano in aria piume sottili e cerchi di carta, per attirare l’attenzione delle rondini. Qualche rondine si infilava nel cerchio e, non potendo più battere le ali, cadeva al suolo. Sono un educatore e quindi ho voluto spiegare ciò a puro titolo d’informazione. Le rondini non ci sono più “recelicchie” non sono più in commercio e se qualcuno volesse provare a costruire il marchingegno stia attento agli occhi propri e di chi sta attorno. Non vorrei essere accusato di…istigazione a delinquere.

A cura di Domenico Tota
articolo già pubblicato su La Gazzetta di San Severo, 23 ottobre 2004

Le nefandezze dei di Sangro contro le popolazioni di San Severo e Torremaggiore

mercoledì, giugno 3rd, 2009

Correva probabilmente l’anno 1720 quando al mastrogiurato Giacomo Pazienza ed ai sindaci Bartolomeo Palma, Niccolò Rossi, Francesco Aceto e Geronimo Buttazzo, facenti parte dell’Amministrazione Comunale di San Severo, denunciarono gli abusi e i delitti commessi dai feudatari Paolo ed Antonio di Sangro ai danni dei cittadini di San Severo. Ecco l’oggetto della denuncia:“Gravezze, estorsioni, abusi di giurisdizione, sevizie, oppressioni, maltrattamenti, indebite carcerazioni ed omicidi praticati degli illustri d. Paolo di Sangro principe di S. Severo e d. Antonio di Sangro suo figlio duca di Torremaggiore in tempo del loro governo con l’oppressa città e cittadini di San Severo”.  La denuncia è illustrata in maniera circostanziata in ben 50 punti ed evidenzia il clima di terrore che si era instaurato. Non si sa se i cinque firmatari intrapresero insieme il lungo viaggio o se fu il solo sindaco Rossi a recare a chi di competenza la denuncia.
Nel documento si comincia a parlare dell’usurpazione di tutti i beni demaniali di San Severo e dell’appropriazione con violenza di 400 ducati ai danni dell’Università (Amministrazione comunale). Le terre demaniali usurpate venivano poi affittate forzatamente ai cittadini. Paolo e Antonio di Sangro fecero costruire in città un forno, obbligando i cittadini a servirsene e caricando di tasse gli altri forni. Aprirono anche una taverna obbligando i forestieri a servirsene prioritariamente. Ogni anno faceva macellare animali di pessima qualità, obbligando ad acquistarne con gravi danni per la salute. In pieno inverno, poi, faceva tagliare gli alberi di olive dei poveri contadini e se ne servivano per i propri animali, mentre quando i buoi dei coloni venivano sorpresi a pascolare sui territori della règia corte, volavano multe salate. Obbligavano i contadini a prendere in affitto le loro masserie e proibivano la vendita di molte merci per vendere le loro.
Molti cittadini di San Severo furono costretti a prestare servizio gratuito ai baroni: chi si rifiutava era imprigionato nel Castello di Torremaggiore e bastonato sonoramente. Il duca Antonio era solito recarsi di notte presso case private per prelevare donne, anche sposate, e portarle al castello per i propri sollazzi. Si appropriò anche di buoi, cavalli, asini, carri, carrette, materassi, coperte e perfino del letto dei poveri, per cui questi erano costretti a dormire per terra. Organizzava anche, al castello, balli lascivi, obbligando le ragazze del paese a parteciparvi. Inoltre, dopo aver tolto ai poveri le poche vettovaglie, faceva rifornire i pubblici esercizi a prezzi esosi. Spesso i nostri concittadini dell’epoca erano costretti a “regalare” ai di Sangro cavalli, selle, briglie ed armi. Senza processi incarceravano tanti sanseveresi, senza distinzioni di classe. E fu anche proibito ai condannati di fare ricorso ai Regi Tribunali. Usavano perfino violenza per far eleggere alla guida della città persone di loro fiducia.
Paolo di Sangro vendette a privati ed a monasteri territori demaniali usurpati alla città, facendo ammazzare Leonardo Galiano, che si era rifugiato nella chiesa di S. Francesco dei Padri Conventuali di S. Severo, ed Alessandro Diomedes di Torremaggiore. A Giuseppe Giordano, giudice della Regia Dogana di Foggia, fece tagliare la faccia rimanendo impunito, così come per l’approvazione indebita di un titolo riservato ai sovrani (cioè “AUGUSTISSIMA CASA di SANGRO”). I fratelli del Vasto, Antonia Nitto, Giuseppe Malci, Luca Suviero, Michele Marino, Carlo de Santis, Nicolò Cupaiolo, Isabella ed Antonio Pazienza, cittadini di San Severo e Torremaggiore, rinchiusi senza alcun giudizio nel castello, subirono atroci violenze. Vitantonio Capotorto di Rutigliano fu ucciso con un colpo di archibugio. Giovanni Battista Schiavetta subì estorsioni varie; tre sue figlie nubili e la nuora, Lucrezia d’Autilio, furono imprigionate e per le sofferenze quest’ultima abortì.
Antonio di Sangro si spinse oltre. Non contento di aver impoverito tutti, tolse a tanti la vita, facendo bastonare laici ed ecclesiastici, come don Domenico Piccinino di Torremaggiore, per non aver voluto mandare una nipote zitella ai suoi balli lascivi. Sulla pubblica piazza, dai suoi sicari, gli fece frantumare il braccio sinistro. E inoltre fece uccidere Giuseppe Antonio Piccinino, speziale, nipote di don Domenico, per non aver voluto far svergognare altre sue parenti. Il documento di denuncia, che ho riportato nella parte essenziale, si conclude con queste precise parole: “De’ quali Capi … (di imputazione) …li Cittadini di S. Severo, ed altri interessati, estorti ed oppressi ne fanno istanza, e ne cercano giustizia, e per essi li Attuali Governanti di detta Città di S. Severo”.
Le notizie che seguono sono tratte da un articolo scritto da Giacomo Pazienza (discendente del famoso mastrogiurato) sul “NOTIZIARIO STORICO-ARCHEOLOGICO” del CENTRO DI STUDI SANSEVERESI del giugno 1972, stampato per i tipi di Dotoli.

Il 2 marzo 1723 il sindaco Niccolò Rossi, uno dei firmatari, reo di aver portato la denuncia, non sappiamo se con altri, alle corti di Napoli, Madrid e Vienna, fu ucciso con una archibugiata da Giovanbattista de Angelis, per mandato di Gennaro Gaudino, su ordina del duca. Responsabili e mandanti vennero individuati. Il 18 maggio 1723, la causa fu rimessa alla règia procura di Lucera. Nel frattempo a Giacomo Pazienza nacque un figlio, Domenico Antonio, e i di Sangro, per rabbonire il fiero mastrogiurato, fecero battezzare, il 10 giugno 1723, il bambino da un loro congiunto. Ma quando Pazienza seppe che Girolamo del Sordo al processo aveva testimoniato il falso, perché sottoposto ad atroci torture, cosa denunciata pubblicamente nella chiesa di S. Agostino, ruppe gli indugi e, dimenticando i

vincoli affettivi che lo legavano ai di Sangro, radunò il popolo e lo portò alla ribellione contro i tiranni. Atto di coraggio non comune in tempi tanto difficili, in cui incerte erano le leggi e quasi inesistente l’indipendenza del potere giudiziario dalle potenti influenze. Sulla facciata della nostra Chiesa della Pietà, una lapide ricorda l’evento: “PRO PUGNA PATRIA 1723”.

a cura di Domenico Tota
articolo già pubblicato su La Gazzetta di San Severo, 29/01/2000

Le condizioni igieniche della San Severo di una volta

mercoledì, giugno 3rd, 2009

Le condizioni igieniche di San Severo e di molti Comuni del meridione, nei primi decenni del secolo scorso, lasciavano molto a desiderare. Non si scandalizzino i giovani per le notizie che apprenderanno, né quelli della mia età perché riferirò certe circostanze. Ci rideremo sopra e ci rallegreremo per il progresso fatto.

L’esigenza primaria per la crescita fisiologica dell’uomo è la nutrizione sotto più forme e, di conseguenza, la…defecazione comune a tutti gli esseri viventi. Oggi in ogni casa c’è quello che prima si chiamava “gabinetto” ed ora si chiama “bagno” con acqua corrente, sanitari in ceramica, doccia, vasca ed ogni altro comfort.
Una volta non era così. Nelle case abbienti c’erano i pozzi neri che venivano svuotati ma, nella maggior parte delle case formate da un solo ambiente e con una sola apertura verso l’esterno, la porta d’ingresso, vivevano famiglie numerose insieme al cavallo o all’asino, alle galline ed al maiale. In un angolo del monolocale c’era un pannetto di stoffa colorata dietro al quale era sistemato “u cumbrise”, sorta di vaso per lo più di terracotta smaltata, alto una sessantina di centimetri e con un’apertura del diametro di circa 40 cm. Ed il bordo, a forma circolare dello spessore di circa 5 cm, ai lati aveva due manici. In questo vaso i componenti della famiglia facevano i propri bisogni corporali. Per pulirsi non usavano la carta igienica a doppio o triplo velo o la carta di giornale che fu usata in seguito, ma si servivano di uno strofinaccio appeso ad un chiodo sul quale gli appartenenti del nucleo familiare apponevano la propria…”virgola”. E quando lo strofinaccio si riempiva…“virgole”, non veniva buttato ma lavato con l’ultima acqua della “luscia”, cioè del bucato.
Dopo la mezzanotte passava il carro nel quale le donne, svegliate dal suono della tromba o dal grido…di guerra: «Iamm a sci!» (sbrigatevi ad uscire), versavano il contenuto del “cumbrise”. Sul far del giorno i “carr d’a nott” si avviavano verso “u muraglion”, a Porta Foggia (precisamente nella zona antistante l’attuale supermercato Giuliani, dove scorreva un canale a cielo aperto, in seguito chiuso), dove i carri a retromarcia, liberato l’animale da tiro, “ce nculazzavene” e facevano cadere il maleodorante carico, aperto lo sportello posteriore, nel canalone sottostante. L’addetto del Comune aveva un carro in ferro trainato da un mulo avvezzo, come il padrone, a sentire i dolci effluvi del “prezioso carico”. I carri passavano anche i giorno per raccogliere acqua sporca. Nel paese dove sono nato, i carri per le feci passavano in mattinata fino a mezzogiorno e oltre, ammorbando l’aria anche durante il pranzo. E giacché i componenti delle famiglie erano numerosi per evitare che “u zi peppe” si riempisse subito, la mamme praticavano nei pantaloncini dei maschietti un taglio antero-posteriore, per cui i ragazzi, in mancanza di mutandine, si accoccolavano lungo le facciate delle case e facevano i propri bisogni all’aria aperta senza bisogno di pulirsi. Dai pantaloncini così spaccati spesso fuoriusciva un lembo di maglietta o di camicia che veniva chiamata “pettela”, da cui è venuto poi il soprannome di “pettelone”. Gli adulti poi la sera, considerando che lungo le strade non c’era un’adeguata illuminazione, facevano i propri bisogni o agli angoli dei palazzi e delle chiese o in mezzo ai piazzali. Ci fu un periodo, correva esattamente l’anno 1943, in cui Largo Sanità (u muriene), dove io abitavo, era diventato parcheggio obbligatorio dei carretti, sotto i quali c’era una gran quantità di “pupurete” di tutte le misure. Agli angoli delle chiese, per evitare brutte sorprese, costruirono “i sciuveleture”. La foto ci presenta quello di S. Antonio Abate, ma ce n’erano anche al Carmine, a S. Giovanni ed e S. Nicola. Chi si azzardava ad uscire di casa nelle ore notturne, lungo le vie di periferia piene di fango d’inverno e di polvere d’estate, lo faceva a proprio rischio e pericolo, perché poteva prendersi una doccia di liquidi organici buttati in strada o dalle porte dei pianterreni o dai balconi del piano superiore. Gli inverni erano particolarmente rigidi e spesso nevicava. In questi casi il servizio notturno di raccolta dei rifiuti solidi non veniva effettuato, per cui la gente non poteva che versare per strada il famoso contenitore. E la neve copriva tutto. Ma quando la neve si scioglieva, compariva lo…spettacolo. Nel nostro dialetto esiste ancora un modo di dire che ricorda questi “eventi”: «Alla squagghiata d’a neve ce vedene i strunz», che viene usato in senso allegorico, per dire che le magagne col passare del tempo vengono a galla.

Nell’anno 1935 le strade di San Severo furono sventrate per la costruzione della condotta principale della fogna nera e dell’acquedotto. Sono ancora visibili i coperchi dei tombini col fascio e la seguente iscrizione “IMPRESA V. OLIVIERI A. XIII E FONDERIA MONTECATINI PESARO” (la data fa riferimento all’anno 1935: infatti il regime fascista contava gli anni dal 1922, quando andò al potere). Gli allacciamenti alle singole case sono stati praticati con il passare del tempo ed oggi non c’è casa, benché povera, che non abbia i servizi igienici essenziali. Alcuni anni fa incentrai la puntata di una trasmissione televisiva locale sulla situazione igienica del passato. Avevo una bomboniera simpatica che rappresentava il vaso in oggetto. Pregai il cameraman di inquadrare da vicino l’oggetto misterioso. Da casa ognuno vedeva sul proprio teleschermo un “zi peppe” a grandezza naturale. Ne approfittai per rivolgere ai telespettatori dei quiz appropriati al caso. Terminata la trasmissione, mi giunse una telefonata da una voce femminile: «Maestro Tota, ho perduto tutta la stima che avevo per lei, perché ha fatto vedere delle autentiche porcherie!». Le chiesi il nome ma non volle dirmelo. Allora replicai: «Signora, io dovrei interrompere la telefonata perché lei non ha il coraggio delle sue opinioni. Comunque dalla voce lei dovrebbe avere la mia stessa età. Mi dica allora, quando era piccolina, dove faceva i suoi bisogni?». E lei candidamente: «Lì dentro». Ed io: «E ha vergogna a farlo sapere? Dovrebbe essere fiera di dire ai più giovani che questo salto di qualità lo ha compiuto la generazione di cui facciamo parte. Cosa saranno capaci di inventare ancora le nuove generazioni in fatto di igiene? Forse la spazzola rotante, pulente ed asciugante, magari in grado di farci risparmiare il costo della carta igienica?».

a cura di Domenico Tota
articolo già pubblicato su La Gazzetta di San Severo, 19/05/2001

La nostra amara estate del 1943

mercoledì, giugno 3rd, 2009

A fine luglio e per tutto il mese di agosto continuarono i bombardamenti su Foggia. A tutte le ore del giorno e della notte, squadriglie di fortezze volati sorvolavano San Severo dirette a Foggia per scaricare sulla città martire il loro carico micidiale di bombe che provocavano distruzione e morte.

Una mattina, dopo il passaggio degli aerei, volli salire sul campanile della Cattedrale e vidi in diretta lo spettacolo terribile dell’incursione su Foggia: raccapriccio e disperazione provocò il 22 luglio 1943, giovedì, alle ore 10. La gente fu sorpresa dal suono delle sirene e, prima che potesse mettersi in salvo, subì una carneficina da parte degli aerei alleati. Le fortezze volanti volavano a bassa quota e sganciavano bombe. Le formazioni leggere picchiavano con sinistro fragore sulla villa e mitragliavano la gente che fuggiva e cercava rifugio sotto gli alberi e sotto i sedili. Le strade si coprirono di morti. Per l’identificazione i cadaveri vennero allineati lungo il viale della stazione. Quelli irriconoscibili furono seppelliti in una fossa comune al cimitero.
Ricordo che, nel primo pomeriggio, giunse a San Severo un camion con rimorchio carico di feriti e moribondi che furono sistemati alla meglio per terra lungo i corridoi del nostro ospedale. Da tutti i lati del camion colava sangue. Gli edifici pubblici davano ospitalità agli sfollati foggiani, mentre la fame imperversava e si temeva che anche San Severo subisse la stessa sorte. Dopo ferragosto la città cominciò a spopolarsi rapidamente. La popolazione si sparse nelle masserie e nei casolari di campagna. Anche mio padre, che allora aveva 43 anni, decise di trasportare la famiglia (moglie e cinque figli) in un casolare in località “Coppe de porche” su via Castelnuovo, a 4 chilometri dalla città. Un amico aveva messo a nostra disposizione il suo casolare. Caricammo l’indispensabile (due reti, due materassi, una cassapanca con un po’ di biancheria, le pentole per cucinare e un po’ di viveri) e ci avviamo verso la residenza estiva. Papà si improvvisò carrettiere. Noi ragazzi non eravamo mai stati in campagna per cui, il desiderio di vivere in completa libertà, ci riempiva di gioia. Ci divertivamo ad andare a caccia di lucertole, ad arrampicarci sugli alberi, a privare i mandorli dei frutti. Dal pozzo attingevamo acqua fresca. Per i bisogni corporali bisognava andare “ddret ‘a caselle”. Tanti nostri vicini di casa abitavano nei casolari sparsi per la campagna. Alcuni al chiar di luna suonavano strumenti musicali, altri ridevano, cantavano e ballavano. Non c’erano apparecchi radio per cui le rare notizie ci venivano trasmesse da chi faceva una capatina in città per rifornirsi di viveri. Il suono delle sirene, però, ci faceva capire che l’aviazione alleata martellava Foggia. Mio padre, agente di custodia presso le carceri di San Severo, quando era fuori servizio stava con noi in campagna ma non appena suonava la sirena, indossava la divisa e, di giorno o di notte, montava in bicicletta per andare in servizio. Quando l’allarme cessava, ritornava da noi. Qualche volta, prima di arrivare suonava il “cessato allarme” e quindi faceva dietro front.
Una quindicina di giorni fa, dopo 59 anni, ho voluto rivedere quei luoghi e confesso che mi è venuto un nodo alla gola ed un pensiero di nostalgia nel riconoscere “a casella”, ora abbastanza malandata, il cui proprietario attuale è il sig. Farina, che mi ha fatto rivedere l’interno: non sono riuscito a capacitarmi di come abbiamo fatto in sette a vivere per una ventina di giorni in nove metri quadrati. Il 5 settembre piovve e non ci fu più possibile vivere in campagna. C’era circa mezzo metro di fango. Quanto più mio padre “minacciava” il cavallo “c’u scruiete” tanto più la ruota s’affossava ed il cavallo girava in tondo perché non riusciva a venirne fuori. Ci volle l’aiuto di un carrettiere che, preso il cavallo per la “capezza”, lo tirò fuori dalla melma. Entrammo in città da via San Rocco. Un giovane ciclista, che correva in bicicletta verso la campagna, ci gridò a squarciagola: «Evviva! È tornata la pace in tutto il mondo! Voi siete i portatori della pace!». In serata in città ci fu grande animazione. Qualcuno mi disse che nella chiesa di Sant’Agostino aveva visto un soldato tedesco che in ginocchio ed a gran voce ringraziava la Madonna del Soccorso per la fine della guerra. Ma il “bello” doveva ancora venire!

a cura di Domenico Tota
articolo già pubblicato su La Gazzetta di San Severo, 16/03/20

Il mestiere (scomparso) dell’aquarule

mercoledì, giugno 3rd, 2009

Esaminiamo per sommi capi la situazione igienico-sanitaria della nostra città nel secolo ormai trascorso. Agli inizi del secolo le case, per la maggior parte a pianterreno, erano fornite di pozzo da cu si attingeva l’acqua che serviva per i vari bisogni, per la pulizia e per dissetare uomini ed animali. Fino alla prima guerra mondiale gli acquaioli (acquarule) si recavano ad un chilometro dall’abitato, su via Lucera, per attingere acqua dai pozzi.

Il lavoro era improbo perché, per riempire “a carrate” (la botte) di acqua, si servivano di secchi di legno che venivano tirati su a forza di braccia con l’aiuto del “mangano”, grosso rullo di ferro o di legno. Il lavoro era agevolato in quanto l’operatore si serviva di due secchi legati ai due capi della corda: quello pieno si svuotava nella “carrate”, mentre l’altro si riempiva di acqua nel pozzo. Questo lavoro continuava fino al riempimento della botte.
Verso il 1920 fu costruito un chiosco in Piazza Castello dove si vendeva l’acqua potabile di Serino, un Comune della provincia di Avellino, composto da venti frazioni, ricco di sorgenti di ottima acqua. Il prezioso liquido veniva trasportato, a mezzo ferrovia, a San Severo su carri-cisterna che scaricavano il loro contenuto nel serbatoio sottostante al chiosco. La nostra stazione ferroviaria disponeva, fino a trent’anni fa, di carrelli su cui erano sistemati i carri-merce con grossi serbatoi per il trasporto dei liquidi in ogni punto della città.
Quando il 1935 la città fu sventrata per la posa in opera dei tronchi principali della fogna e dell’acquedotto, gli acquaioli cominciarono a rifornirsi di acqua all’angolo fra via Rodi e via Brindisi, dove fu costruita una colonna con la presa di acqua controllata da un addetto che riscuoteva l’importo dovuto dagli acquaioli. Da informazioni assunte presso la famiglia Cirino, i cui componenti Severo, Rocco e Leonardo erano autentici “acquarule”, ho ricavato i nomi ed i soprannomi degli altri colleghi che al grido…dei guerra “Chi vò l’acqua, oh!” giravano per le strade per vendere l’indispensabile bevanda: Leonardo Carrino “Magnacarne”, Minutiello “Minutill”, Antonio Delfino, Matteo e Giovanni “Precciatelle”, “Sciorenze”, “U spaccone”, Matteo Verdone, Luigi Troiano “U Moneche”, Palermo “Tatagnole”.
Il mestiere dell’acquaiolo era pesante ma redditizio, tanto che tutti “ce sò fatt chèse e vigne”. In ogni stagione, levata alle 5 per “strigghià ù cavall” e poi la fila in via Brindisi per riempire “a carrète” che conteneva circa 800 litri di acqua. Venivano riforniti di acqua le casalinghe, per la cucina, il bucato e per l’igiene, i muratori per le varie costruzioni ed i contadini per i lavori dei campi. In media venivano effettuati dieci carichi di acqua al giorno. Quando sentivano il suono della tromba ed il grido caratteristico, le donne si affacciavano alla porta ed ordinavano i “varili” di acqua occorrenti. Il barile vuoto pesava circa 10 kg e poteva contenere 20 litri di acqua. Nella parte posteriore della “carrète” c’era un grosso rubinetto dal quale fuoriusciva l’acqua per riempire i barili. Qualche volta l’acquaiolo portava sulle spalle due barili e quindi circa 60 kg di peso. Una volta in casa della committente, posava il barile con la bocca in giù sulla “sarola” e, nell’attesa che si svuotasse, tornava verso il carretto per riempire un altro barile. Le massaie erano solite chiedere all’acquaiolo: “Iè frescha l’acqua?”. E l’immancabile risposta dell’interpellato era: “Iè frescha assà”. Da qui è stato coniato il modo di dire dialettale: “Ddumanne all’acquarule se l’acqua iè frescha”, che viene usato ogniqualvolta ci aspettiamo dal prossimo una risposta positiva già scontata in precedenza anche se non vera. Le “sarole” erano recipienti di argilla di capacità diverse: da 50 litri in su. Ne vediamo ancora sui balconi o nei giardini riempiti di terra contenenti piante ornamentali o alberelli. Quando questi recipienti non venivano puliti bene, si formavano dei vermiciattoli che guizzavano nell’acqua ed i meno attenti se li bevevano. Per attingere l’acqua da bere, in casa ci si serviva di un solo “secchitillo” di zinco o di alluminio, al quale tutti avvicinavano le labbra (allora non c’erano i bicchieri di plastica monouso). Mi risulta che nel 1964 un barile di acqua costava 15 lire. L’acqua fu venduta per le strade fino al 1970 e chi non aveva l’acqua in casa si riforniva alle fontane pubbliche dell’Acquedotto Pugliese disseminate nei diversi quartieri della città (CHISSÁ PERCHÉ IL COMUNE DI SAN SEVERO HA ELIMINATO MOLTE DI QUESTE FONTANE!).
Questo è uno dei tanti mestieri scomparsi in città; ne abbiamo parlato perché non se ne perda la memoria.


a cura di Domenico Tota
articolo già pubblicato su La Gazzetta di San Severo, 13/10/2001

I vecchi riti della settimana santa

mercoledì, giugno 3rd, 2009

Queste cose sono cambiate nel panorama ecclesiastico dopo il Concilio Vaticano II! I lettori giovani e meno giovani non sanno o non ricordano niente dei vecchi riti della Settimana Santa, per cui abbiamo deciso di ripercorrerli rapidamente.

Fino al 1970, in Cattedrale ed in tutte le parrocchie, la celebrazione della Risurrezione avveniva alle ore 11 del Sabato Santo. A quell’ora le campane della città suonavano contemporaneamente per dare l’annuncio della Resurrezione di Cristo. I muratori erano soliti preparare carri allegorico-religiosi che sfilavano per le strade principali. Sono stato testimone di un fatto “miracoloso”. Si diceva che i bambini di un anno, alle 11 del Sabato Santo, al suono delle campane, cominciassero a camminare. Verso quell’ora del Sabato Santo del 1955, nel cortile della casa di un amico cercavo di far camminare la figlia Adele, nata nell’aprile dell’anno prima. Al suono della campane, la bimba che ha ora 49 anni, da me sollecitata col caratteristico “Iann, iann!” ha cominciato a camminare, prima barcollando, poi con sicurezza. Sarà stato il caso…? Nei tre giorni prima della Settimana Santa, in ogni chiesa, alla sera, si svolgevano i riti delle “tenebre”, ai quali partecipavamo molti ragazzi…interessati. In chiesa le luci erano fioche. C’era un candelabro con 12 candele che venivano spente una alla volta, dopo il canto di ogni “lamentazione”. I canonici cantavano con voce nasale, roca e lamentosa. Tutti aspettavano l’esibizione dell’arciprete don Matteo Mancini e del mensionario don Luigi de Luca. Il primo cantava con voce nasale ed il secondo con voce tremolante. L’ultimo canto era il Miserere e poi si spegneva l’ultima candela. Era il momento tanto atteso da noi ragazzi: il terremoto! Approfittando del buio totale, sbattevamo banco contro banco creando un enorme fracasso. Subito dopo si accendevano le luci ed il…terremoto cessava per incanto. Un altro spettacolo interessante era la consacrazione dell’Olio Santo e del Crisma durante la Messa “In coena Domini” del Giovedì Santo. Il Vescovo consacrava le due sostanze e poi tutti i sacerdoti presenti dovevano percorrere una quindicina di metri per cantare prima “AVE SANCTUM OLEUM” e poi “AVE SANCTUM CHRISMA”. E giacché i sacerdoti erano per lo più vecchi e stonati, vi lascio immaginare lo…spettacolo. Anche quando le sacre funzioni si svolgevano di notte, quando il celebrante intonava il GLORIA IN EXCELSIS DEO, si apriva il panno viola e compariva la statua di Cristo risorto. Ormai le statue del Risorto sono diventate pezzi da museo! Nel pomeriggio del Giovedì Santo, fino alla Resurrezione, si “legavano” le campane, per cui le diverse funzioni erano annunciate dalle “tarocele”, tavolette di legno di circa cm 50 x 30 con un’impugnatura. Sulle due facciate erano sistemate delle maniglie mobili che sbattevano sul legno e producevano un rumore caratteristico. Per tutta la Quaresima i crocifissi e le statue dei Santi erano ricoperti da un panno viola. Per tanti anni, prima che lasciasse l’incarico di parroco per motivi di salute, mio fratello don Luigi Tota organizzava la cerimonia della Resurrezione in maniera spettacolare. Sull’altare maggiore creava una specie di tomba dietro cui c’era la statua del Cristo posta su un marchingegno. Al momento opportuno, il sacrestano azionava una manovella e la statua saliva lentamente fra nubi d’incenso, tuoni prodotti da effetti speciali e lampi di archi voltaici. Quando la statua raggiungeva il culmine, si accendevano tutte le luci, si liberavano alcune colombe ed il celebrante intonava il Gloria.
Una quindicina di anni fa, un vecchietto ubriaco, in Cattedrale, commentava ad alta voce le letture bibliche. Cercai di calmarlo ma fu fatica vana. Lo invitai a seguirmi e lo accompagnai nel tunnel che mette in comunicazione la cappella del Sacramento col presbiterio. Pensavo che il tunnel fosse illuminato ma non lo era e il vecchio cominciò a protestare ad alta voce. Lo accompagnai allora verso l’uscita ma in quel momento sentì il canto del Gloria e si affacciò verso l’altare maggiore per vedere l’apertura del panno viola che manifestava il Cristo. Ma quell’usanza era ormai cessata da anni per cui, ritenendosi…defraudato, cominciò ad alzare le mani nei miei confronti. Venne in mio aiuto un giovane che, mostrando un tesserino, se lo portò via. Il giorno seguente quel giovane mi fermò: era un mio ex alunno, carabiniere, che avevo perso di vista. Mi disse: «Non potevo permettere che alzasse le mani contro il mio maestro! Stanotte l’ho accompagnato in caserma ma il piantone mi ha consigliato di accompagnarlo a casa sua».


a cura di Domenico Tota
articolo già pubblicato su La Gazzetta di San Severo, 10/04/2004

C’erano una volta le fosse granarie

mercoledì, giugno 3rd, 2009

Mentre Cerignola, fiera delle sue civiltà contadina, così com’era il piano delle fosse granarie, a San Severo una passata Amministrazione Civica, vergognandosi delle proprie origini contadine, ha cancellato il ricordo storico di un’epoca dalla quale proveniamo. Dietro mia insistenza, la prima Amministrazione Giuliani ha provveduto a svuotare dalla terra una fossa granaria, abbandonata, in via Minuziano. Un’altra, ben tenuta ed illuminata, fa bella mostra in Piazza Carmine. Fino al 1958 ho abitato a Largo Sanità e la visione delle fosse granarie mi era particolarmente familiare. Ho voluto interpellare un testimone oculare, il mio consuocero Vincenzo Salvato, che per molti anni ha lavorato presso la locale Carovana Facchini. Ho appreso cose che non sapevo e che voglio raccontare ai Lettori perché non vada perduto il ricordo di un periodo storico dal quale ci separano solo 50 anni, ma che sembrano un’eternità! Mi sono servito di una carta topografica di San Severo, datata 8 ottobre 1889, per individuare le fosse disseminate in citta: largo Sanità, via Bixio, largo S. Antonio Abate, via Minuziano (nello spazio antistante al Palazzo Mazzilli), lo spiazzo doe adesso c’è il busto di Casiglio, il piazzale che esisteva sull’area delle Poste Centrali, davanti al Palazzo La Monaca (ex mercato coperto), piazza Carmine, dietro e davanti alla Chiesa di San Nicola, su via Castelnuovo ed in via Belmonte (in uno spiazzo denominato “campesanticchie”). Da un conteggio approssimativo, pare che le fosse granarie fossero 500. il grano si conservava bene nelle fosse che potevano contenere da 300 a 500 quintali di grano. Questa soluzione era conveniente per i proprietari del grano perché su ogni cento quintali, per l’umidità del sottosuolo, il cereale aumentava di un quintale. Le fosse erano “padronali”, nel senso che erano di proprietà privata. Fraccacreta, Naturale, Masselli, Mascia, Scala e De Lucretiis erano i principali padroni di fosse, scavate a regola d’arte con le pareti laterali a botte, tappezzate di pietre ben squadrate e col fondo piatto. Il diametro interno era di m 3,50 circa e la profondità di m 5. qualche volta c’erano infiltrazioni di acqua dal fondo ed il grano ammuffiva. Ho voluto schematizzare la conformazione di una fossa. Esternamente si presentava come nella figura n. 1. era delimitata da 4 “cordoni” in pietra e ogni lato misurava m 1,80. All’interno dei quattro “cordoni” si erigeva un “tuppo” (mucchio di terra) che sporgeva di circa mezzo metro all’esterno. Sotto il “tuppo”, c’erano uno spazio vuoto coperto da una grossa pietra (a). Quando i mediatori (carlantine) volevano comprare il grano di una fossa, non la scoperchiavano completamente ma scostavano la terra nella fossa. Quindi introducevano un’asta lunga più di tre metri (fig. 4), avente alla base un cono capovolto di lamiera in cui mettevano uno strofinaccio legato ad una corda (b). I compratori prelevavano un campione di grano a diverse profondità: bastava tirare dall’alto la cordicella ed il cono si riempiva di grano che veniva esaminato dal compratore. Per versare il grano nelle fosse, non le scoprivano tutte ma le usavano lo stesso sistema usato per prelevare i campioni. Proprio di fronte alle attuali Poste Centrali, c’era la sede della carovana dei facchini, ai quali era affidato il compito del prelievo del grano dalle fosse. Lavoravano a squadre di 11 persone. Nella fig. 3, ai quattro angoli (a,b,c,d) si sistemavano i facchini che avevano il compito di portare in superficie i “panère” (recipienti di legno che potevano contenere una decina di chili di grano). Nella fossa scendeva uno che, a turno, riempiva i “panère”, il cui contenuto versavano nei sacchi. Altri facchini sistemavano il sacco sulla “bascuglia” (la bascula) e regolavano il peso a kg. 100. Il sacco, chiuso con una cordicella, era sistemato sul mezzo di trasporto (carretto, furgone o altro). Nel punto in cui la tramvia Torremaggiore-San Severo faceva la curva verso la stazione ferroviaria. I Casillo, provenienti dalla zona di Napoli, costruirono un mulino-pastificio. Nei pressi della curva, avevano sistemato dei binari morti dove sostavano i carri-merce per essere caricati di grano che i Casillo acquistavano per i loro opifici o che spedivano, tramite ferrovia, in ogni parte d’Italia. Vincenzo Salvato, prima col carretto tirato da cavalli e poi col furgone, aveva il compito di portare i sacchi di grano dalle fosse al mulino, dove il grano si trasformava in farina, semola e crusca. Salvato caricava anche i carri ferroviari con sacchi da un quintale. Semola e farina prendevano la via dei pastifici Corticelli di Bologna, De Cecco di Pescara ed altri del nord, mentre la crusca era diretta a Napoli per ottenere mangimi per animali. Il nostro amico, per ogni carro riempito percepiva 5 lire, che erano “un capitale”. La vita dei facchini era molto grama perché il salario era misero e si lavorava solo in determinati periodi dell’anno. Vincenzo Salvato è una miniera di notizie di vita cittadina che ricorda con una lucidità di memoria sorprendente.

A cura di Domenico Tota

articolo già pubblicato su La Gazzetta di San Severo, 6 novembre 2004

Breve storia del campanile di S. Agostino

martedì, giugno 2nd, 2009

ll campanile della Chiesa di S. Agostino è il più artistico, bello e snello dei pur numerosi campanili della nostra città. È visibile da tutti i punti cardinali e sembra dare la benedizione della Madonna del Soccorso ai sanseveresi e ai forestieri che scendono allo scalo ferroviario, perché lo si nota, insieme al campanile della Cattedrale, proprio frontalmente. La sua costruzione ebbe inizio prima del 1563, fu abbattuto dal terremoto del 1627 e poi ricostruito. Il secondo piano vene innalzato il 1770. gli altri piani ed il capolino furono terminati il 1820. il campanile è alto complessivamente 48 metri.

Alla prima balconata (quarto piano), a 22 metri dal suolo, ci sono le tre campane più antiche che ora tacciono perché, pur fornite di batacchio (ù martagghie) possono suonare a martello ma non a distesa, perché mancano le funi adatte. Ricordo che da lì negli anni 1942-43, tutte le notti due soldati, con i binocoli, scrutavano le campagne per individuare eventuali lanci di paracadutisti inglesi o americani.
Sulla più grande delle tre campane c’è la seguente iscrizione: MENTEM SANCTAM SPONTANEAM HONOREM DEO ET PATRIAE LIBERATIONEM.
CHRISTUS REGNAT. CHRISTUS IMPERAT. CHRISTUS AB OMNI MALO NOS DEFENDAT. SANCTE AUGUSTINE, ORA PRO NOBIS. MAGISTER LIBERATOR THEATINUS ME FECIT – AD MDXXXXXX3.
Sulla seconda campana dell’orologio della Chiesa di San Severino è riportata la prima parte di questa iscrizione con la data del 1543 ed invece di “liberationem” è scritto “deliberationem” per cui risulta più facile la traduzione (sono stata costruita): “per santa spontanea decisione, in onore di Dio e per deliberazione della Patria. Cristo vince. Cristo regna. Cristo impera. Cristo ci difenda da ogni male. S. Agostino, prega per noi. Mi ha fusa (fatto) mastro Liberatore di Chieti. Nell’anno del Signore 1563” (notare come è scritto strano il numero romano!).

Sulle altre due campane ci sono date ed iscrizioni che mi è stato impossibile leggere per difficoltà di ordine pratico.

Alla seconda balconata (quinto piano), a 32 metri dal suolo, da circa venti anni, sono state collocate otto campane di varia misura ed intonazione collegate elettricamente ad un carillon, che spandono sulla città mattino, mezzogiorno e sera le dolci note dell’Ave Maria di Lourdes e suonano anche a distesa ed a martello. La cuspide del bellissimo e snello campanile ha una copertura in rame: sistema più sicuro contro le intemperie ma decisamente antiestetico. Riporto qui di seguito un passo del manoscritto di Antonio Irmici che parla della Chiesa ed Arciconfraternita del Soccorso. A pagina 86 è così scritto: “Possedendo la cassa della Confraternita un avanzo di ducati 800, l’egregio Priore, sig. Tura, con delibera 28 gennaio 1821, ottenne erogarlo pel compimento del Campanile, rafforzandone benanche le fondamenta. Gran gioia vi fu in quel giorno (15 novembre 1823) fra I Congregati, specie quando si vide il confrate meccanico, Francesco Paolo Fiani, inalberare la Croce e la Bandiera sul vertice del Capolino, ricco di ben patinate ambrogette, e quando illuminò i quattro balconi, muniti di ringhiere di ferro, sporgenti ai quattro lati di esso”. Quindi la “cuspide” o “cupolino” non aveva la copertura in rame ma le “ambrogette”, così definite da Zingarelli: “Piccolo quadrello di marmo, di vari colori, per pavimento. Quadrello di terra cotta invetriata”.
Le cuspidi dei campanili dei Celestini, di San Severino ed in questi giorni di San Lorenzo son tornate al loro antico splendore. Ora tocca a S. Agostino, alla Cattedrale ed a Croce Santa. Vorrei lanciare un appello alla cittadinanza: frugate fra i vostri ricordi; qualcuno potrebbe avere qualche foto in bianco e nero o a colori della cuspide del campanile di S. Agostino che potrebbe essere preziosissima per individuare il disegno delle “ambrogette”, così come una mia foto servì per realizzare la bellissima cuspide del campanile di San Severino. Agli Amici dell’Arciconfraternita del Soccorso, al suo Priore dr. Giuseppe Caracciolo ed al Rettore Can. Don Angelo Libero un incoraggiamento a rendere sempre più bello il Santuario della Patrona del Soccorso e ancor più meraviglioso il panorama cittadino dei campanili, bellissimi per la loro forma e gli splendidi colori di cupole e cuspidi.


a cura di Domenico Tota
articolo già pubblicato su La Gazzetta di San Severo, 03/06/2000